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Mauro Porcini: “Noi lo chiamiamo design, le grandi aziende la chiamano innovazione”

Osservatorio — 01 luglio 2021

"Si parla spesso dei processi utili per raggiungere un determinato risultato, ma quello che fa la differenza sono le persone"

“Per tutti designer e innovatori la sfida di questi giorni è comprendere come un nuovo target di riferimento, digitalizzato per la prima volta come nel caso dei baby boomer, si possa approcciare con prodotti nuovi”. Sono le parole di Mauro Porcini, classe 1975, designer e manager italiano di stanza a New York, che dopo aver lavorato per Philips Design e aver fondato la sua agenzia Wisemad, è diventato il primo chief design officer di 3M. Dal 2012 è senior vice president e primo chief design officer di PepsiCo. Lo abbiamo incontrato in occasione del lancio del suo primo libro L’età dell’eccellenza, appena uscito per Il Saggiatore.

Nell’ultimo anno è mezzo si è parlato molto di digitalizzazione. Tu che idea hai di questo momento storico particolarmente delicato?

La pandemia ha accelerato una serie di tendenze già in corso, creando opportunità. L’attenzione è stata rivolta ai temi della sostenibilità, al rapporto tra lavoro e società, e più in generale al benessere, alla salute e alla cura dell’essere umano. Alcune aziende hanno saputo cogliere queste occasioni: se penso per esempio al mondo di PepsiCo, è successo qualcosa di molto interessante che può essere utile anche in futuro. L’azienda ha scelto di creare tre team con altrettanti obiettivi, sin dai primi momenti della pandemia. Il primo con il compito di reagire alle criticità nell’immediato; il secondo con focus sul tema dell’uscita dalla crisi; il terzo, che è anche il più interessante, si confronta con il futuro, lavorando sulle proiezioni dei prossimi cinque anni. Comprendere come la crisi avrebbe cambiato l’economia, i mercati, la società, il modo in cui gli utenti interagiscono con prodotti, servizi e brand dell’azienda, ci ha offerto la possibilità di fare investimenti importanti nel trimestre o nell’anno per prepararci alle sfide del domani. Investire sul futuro è un modo eccezionale di reagire alla crisi nel breve termine, proiettandosi avanti nel tempo. In questo contesto la digitalizzazione è stato uno dei trend più importanti: abbiamo fatto diversi investimenti sui dati e nel direct to consumer, ma abbiamo soprattutto sperimentato e fatto innovazione. Come nel caso del lancio di Driftwell, un nuovo drink per rilassarsi e favorire il sonno, oppure il sistema di wereable tecnologies di Gatorade che monitorano il corpo e comunicano con un’app dedicata, suggerendo il tipo di concentrato da miscelare in un pod riutilizzabile. Capire come la tecnologia possa abilitare esperienze personalizzate in settori dove ciò non esiste è una grande opportunità.

Sei stato Chief Design Officer di 3M prima e di PepsiCo oggi. Come sei riuscito a portare il design dentro due aziende di questo calibro?

Il design italiano è conosciuto e amato in tutto il mondo. È un grande valore che, in una certa misura, rischia però di tarpare le ali rispetto a ciò che il design può essere al di là di un approccio tradizionale. In prima battuta bisogna considerare la comprensione reale di cosa sia il design: le scuole italiane insegnano a fare il tipo di design che personalmente desidero promuovere all’interno di industrie non convenzionali. In ateneo le lezioni vertevano su tre dimensioni: scienze umane, il mondo del business e del marketing, e infine l tecnologia. Noi lo chiamiamo design, le grandi aziende la chiamano innovazione. Le tre lenti dell’innovazione sono desiderabilità, fattibilità e redditività. I designer sono in grado di creare soluzioni innovative e dense di significato, la vera difficoltà risiede nel comunicare alle aziende che il design è innovazione. Io ho scelto di combattere il sistema per cercare di cambiare le cose: quando ricevevo un brief mi interrogavo sul perché di quel compito, fino ad arrivare alla causa primaria della richiesta. A quel punto, applicando l’approccio del design thinking, si arriva a ridisegnare cultura, processi e metodi di lavoro dell’azienda. In questo modo il designer diventa indispensabile per l’azienda stessa.

Da poco è uscito il tuo libro L’età dell’eccellenza. Come si crea un progetto d’eccellenza?

Credo che esista sempre un comune denominatore tra i progetti che funzionano. Si parla spesso dei processi utili per raggiungere un determinato risultato, ma quello che fa la differenza sono le persone. In questo senso quando mi affaccio a un nuovo progetto cerco di costruire un team composto da quelli che nel libro definisco unicorni, persone che abbiano tutta una serie di caratteristiche e che sappiano porsi le domande giuste, per arrivare alla sostanza e produrre innovazione. È necessario un team che sappia poi rispondere nel modo corretto, un team che sappia farlo insieme mettendo sul tavolo diversi know-how e un team che sappia portare l’idea sul mercato. Nel libro parlo anche di come i processi siano un po’ come un pennello, le multinazionali investono milioni di dollari e mesi per definire le setole e i materiali della struttura del pennello, ma nessuno parla di avere Picasso per disegnare qualcosa di incredibile.

Quanto è possibile rimanere al passo con i tempi? È importante essere sempre aggiornati e integrare nuove competenze?

Rispondo con due caratteristiche dell’unicorno di cui parlavo prima. Una è la curiosità, che è alla base di quasi tutto per ogni innovatore: è quella voglia viscerale e ossessiva che spinge a essere uno studente per tutta la vita, inquadrando ogni situazione come un’opportunità. Leggere, parlare, informarsi, conoscere nuove culture, sempre con rispetto, e amare la diversità dei punti di vista. La seconda dimensione è quella della consapevolezza che da soli non si conoscerà mai abbastanza, più si impara e più ci si rende conto di non sapere, come diceva Socrate. E per questo diventa centrale saper attorniarsi di persone che abbiano know-how diversi dal nostro, non tanto per avere un rendiconto specifico, ma con l’obiettivo di lasciarsi ispirare sia a livello tecnico ma anche a livello di soft skills.

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Tag: Mauro Porcini Interviste



© Fuorisalone.it — Riproduzione riservata. — Pubblicato il 01 luglio 2021

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