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Deborah Zani: “L’imprenditoria deve uscire dalla comfort zone e investire sulla sostenibilità”

News, Osservatorio — 12 novembre 2021

Una chiacchiarata con il CEO di Rubner Haus e autrice del volume “Sostenibilità e Profitto” su uno dei temi più discussi nel mondo d’impresa.

Deborah Zani è CEO di Rubner Haus, azienda altoatesina produttrice di case prefabbricate in legno. Da poco è uscito il suo libro da Sostenibilità e profitto. Il binomio del successo nel prossimo futuro, edito da Mondadori Electa, un interessante progetto editoriale che raccoglie le testimonianze di imprenditori, manager e professionisti per provare a fare il punto sul tema e a tracciare percorsi innovativi per il futuro dell’industria, trovando un equilibrio tra responsabilità ecologica e obiettivi di profitto. “La sostenibilità per me è il ricordo di un ciuffo di carote, di un cesto di pomodori o di un mazzetto di fragole. Di quella verdura e frutta succosa, dolce e croccante che da bambina ero solita “rubare” nell’orto di mia nonna a Velturno, in Val d’Isarco, e che vorrei, un domani, poter far assaggiare ai miei bambini e ai miei nipoti,” scrive Zani nel volume. L’abbiamo incontrata per saperne di più.

Il pensiero ecologico è entrato in cima alle priorità all’interno delle agende dell’industria del design e dell’arredamento. Partiamo da una domanda diretta: come si evita il cosiddetto greenwashing?

Il tema è entrato anche nelle agende dei consumatori, che poi sono la base bel mercato, sui media e in politica in maniera preponderante, ma forse in modo ancora troppo macroscopico. Per evitare il greenwashing bisogna partire dall’alto verso il basso e viceversa: trovo che debba essere il mondo imprenditoriale, e qui includo anche le grandi realtà di design in Italia, a spingere la politica e le associazioni di categoria a supervisionare la narrazione delle aziende. Il greenwashing nasce dalla comunicazione e dello storytelling su cui non c’è molto controllo dal punto di vista del legislatore, sia per quanto riguarda le sanzioni che sul fronte incentivi. Il mondo imprenditoriale deve uscire dalla propria zona di comfort e investire nel tema della sostenibilità, che in un primo momento significa avere un aumento dei costi per formare i collaboratori e cambiare il modello di governance. Il tema della correttezza e della trasparenza si traduce poi in un vantaggio competitivo.

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In questo senso il cosiddetto “fare sistema” potrebbe essere una strada percorribile?

L’Italia è composta da tantissime piccole e medie imprese che hanno bisogno di trovare degli standard insieme, investendo meno singolarmente. Costringere la filiera, i comparti e i settori a darsi delle regole può essere una prima possibilità per evitare il greenwashing, comunicando in maniera compatta e sincera quello che fa del prodotto un prodotto realmente sostenibile.

Il suo libro Sostenibilità e profitto mette insieme voci autorevoli per provare a fare il punto sulle complessità di questo tema, tracciando possibili soluzioni. Le due parole che compongono questo binomio conciliabili?

Il mondo imprenditoriale ha capito che lo sono necessariamente. Sono due aspetti interdipendenti, ma il profitto rappresenta la base per costruire la sostenibilità d’impresa. Se un’azienda non è sostenibile dal punto di vista economico non può impegnarsi a livello sociale: ovvero occuparsi del welfare dei collaboratori e del tessuto territoriale in cui si inserisce. Mi viene in mente la storia della Olivetti di Ivrea, dove c’è stata una massima applicazione del concetto di obbligo di responsabilità sociale. All’interno del libro c’è uno studio condotto da un’azienda di pricing molto interessante: verosimilmente i clienti sono disposti a pagare dal 75 fino all’85 per cento in più per un prodotto sostenibile, mentre dei comparti della moda e del beauty si arriva fino al 220 per cento.

Quando si parla di sostenibilità, uno dei grandi temi è quello della tecnologia. Qual è il suo ruolo nella lotta al cambiamento climatico? La sola tecnologia è sufficiente per contrastarlo oppure è necessario un netto cambio di mentalità?

C’è bisogno di entrambe, la tecnologia deve sostenere il cambiamento verso la sostenibilità. Tradotto: investire in sostenibilità paga. Non tutte le aziende potranno essere sostenibili da un giorno all’altro perché avranno bisogno di investimenti corposi in tecnologie che aiutino a ridurre l’impatto ambientale di vita di un prodotto durante l’intero ciclo.

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Una sezione interessante del libro è il glossario dedicato alle voci e ai termini legati alla sostenibilità. Quanto è importante diffondere cultura della sostenibilità oggi? E come farlo nel modo migliore?

Il tema della formazione è centrale, così come quello dell’informazione. Credo si debba partire dalle scuole elementari perché i bambini sono in grado di comprendere le relazioni in maniera immediata. Rispetto alle università è necessario formare gli studenti di tutti i corsi di laurea, e non soltanto quelli specializzati e nei master dedicati alle nuove professioni. Accanto alle nuove generazioni è importante lavorare su chi nel mercato è già inserito: all’interno di Rubner Haus ho istituito un green team dedicato, che tra le altre cose sta seguendo il passaggio dell’azienda a società B-Corp. D’altro canto penso che un CEO debba essere remunerato, oltre che secondo fattori finanziari, secondo l’impronta sostenibile che dà all’impresa.

Guardando al futuro delle B-Corp, crede che assisteremo a un superamento della certificazione proprio perché ogni azienda dovrà fare di questo asset una questione imprescindibile?

C’è bisogno di maggiore sistematicità, al fine di capire quali sono i parametri per il non-financial reporting. È necessario che ciò che fa un’azienda diventi oggettivabile è riconoscibile anche da parte di tessuti finanziari. Penso che in futuro ci sarà bisogno di avere degli standard condivisi per riuscire a esprimere la propria sostenibilità. Oggi si diventa B-Corp perché è una delle poche certificazioni di facilità di comprensione da parte del mercato, è trasversale a tutti i settori e guarda all’azienda in maniera sistemica.

A proposito dell’esperienza di Rubner Raus, di cui lei è amministratore delegato, in che modo la costruzione di case in legno riduce l’impatto ambientale rispetto all’impiego di materiali come cemento armato?

Il legno è un materiale sostenibile e rinnovabile, rappresenta un serbatoio di CO2 inglobata nel corso della sua vita mediante la fotosintesi. Per produrre le pareti in legno di una casa Rubner Raus si impiega meno energia e di conseguenza le emissioni sono minori rispetto al cemento armato. A livello logistico, il legno richiede inoltre un numero minore di camion per essere trasportato sui cantieri: il trasporto è circa il 50% in meno. Inoltre i nostri cantieri in media durano tre mesi, a confronto con quelli in cemento che possono arrivare fino a un anno. Le nostre case emettono meno CO2 perché necessitano di meno energia per esser riscaldate e raffrescate, un 20% in meno rispetto a una casa tradizionale. Sono ignifughe e prive di muffe e richiedono costi di manutenzioni minori. Dall’albero fino ad arrivare alla gestione della casa, il percorso ha un impatto decisamente più contenuto.

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Tag: Rubner Haus Sostenibilità Interviste



© Fuorisalone.it — Riproduzione riservata. — Pubblicato il 12 novembre 2021

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