Non più materia fragile e finita, ma risorsa in trasformazione: rehub trasforma gli scarti del vetro in revéro, un nuovo materiale monomaterico e privo di resine
A Murano, dove la tradizione millenaria del vetro incontra le sfide del presente, nasce rehub: una startup che trasforma gli scarti in futuro. Fondata dall’architetto veneziano Matteo Silverio, rehub fonde il sapere artigiano con le potenzialità delle nuove tecnologie per dare nuova vita a quel vetro che, per ragioni tecniche o di filiera, oggi non può essere riciclato. Perché non tutto il vetro, infatti, è riciclabile: bicchieri, lastre, lampade, parabrezza appartengono a un sistema frammentato, escluso dai processi di recupero. A Murano, ad esempio, oltre il 50% della produzione annuale diventa scarto - un materiale che, a causa degli ossidi metallici usati per colorarlo, non può essere rifuso e finisce in discarica. Le aziende pagano per smaltirlo e poi riacquistano nuova materia prima, alimentando un ciclo insostenibile. Da questa consapevolezza nasce revéro: un materiale monomaterico e privo di resine o plastiche, ottenuto dalla sola trasformazione di scarti di vetro. La polvere di vetro viene miscelata con acqua e un blend naturale di leganti, dando vita a una pasta lavorabile con i più comuni processi industriali: rullatura, iniezione, stampaggio, pressatura e stampa 3D con un estrusore sviluppato internamente. Abbiamo incontrato Matteo in occasione di Edit, a Napoli, e abbiamo fatto due chiacchiere con lui.

Courtesy of rehub
Come nasce Rehub e qual è stato l’episodio o l’intuizione che vi ha spinto a ripensare al ciclo del vetro?
Lavoro a Murano da più di dieci anni. In realtà ci sono arrivato quasi per caso, per una consulenza che pensavo temporanea, in un momento in cui ero tornato a Venezia solo di passaggio. Poi però non me ne sono più andato: l’isola, la sua energia, i maestri… mi hanno completamente catturato, e da allora la mia attività si è concentrata quasi interamente qui. Durante uno dei tanti progetti che seguivo – in quel caso per Expo Dubai – stavo collaborando con una vetreria alla realizzazione di alcuni oggetti. Ricordo benissimo che in fase di produzione si accumulavano quantità enormi di scarti: pezzi difettosi, rotti, o semplicemente non perfetti per essere consegnati al cliente. A un certo punto, un po’ ingenuamente, ho chiesto al maestro vetraio: “Ma tutto questo, che fine fa?”. La sua risposta mi ha spiazzato: “Lo buttiamo, non possiamo rifonderlo, finisce in discarica.” Ecco, credo che rehub sia nata in quel momento. Da lì ho cominciato a studiare meglio il problema, a capire l’impatto reale di quello scarto - ambientale ma anche economico - e a cercare un modo per trasformarlo da costo a risorsa. È stato un percorso lungo, fatto di sperimentazioni e tentativi, ma tutto è partito da quella domanda così semplice e, in fondo, inevitabile.
Perché definisci revéro una rivoluzione silenziosa?
Perché non fa rumore, ma cambia le cose: revéro non nasce da un gesto eroico o da un colpo di genio, ma dall’osservazione ostinata di un problema e dal tentativo di risolverlo in modo concreto. È una rivoluzione che non ha bisogno di proclami: si misura nei fatti, nel modo in cui una materia considerata scarto può tornare a essere risorsa. La definisco “silenziosa” perché agisce nel quotidiano, dentro i processi produttivi, senza la pretesa di riscrivere tutto da capo. Non vuole sostituire la tradizione, ma renderla più consapevole, più coerente con il tempo in cui viviamo.

Courtesy of rehub
Che pezzi e progetti avete realizzato finora?
Noi lavoriamo principalmente in ambito B2B, sviluppando progetti su misura che si integrano con le esigenze dei nostri partner, ma sempre mantenendo la nostra visione di sostenibilità e di design consapevole. La ricerca e la sperimentazione sono il cuore di rehub. Molti dei nostri esperimenti sono diventati oggetti concreti. Le nasse, per esempio, sono state le prime prove di stampa 3D con la nostra pasta di vetro; poi è arrivata la collezione res, una serie di piccoli oggetti per la casa realizzati tramite pressatura, caratterizzati da texture terrazzo e un’estetica materica, quasi architettonica. Da queste esperienze sono nate collaborazioni più strutturate, come quelle che abbiamo presentato a EDIT Napoli: con Rampinelli Edizioni abbiamo realizzato due coffee table disegnati da Studio Sovrappensiero, in cui il metallo dialoga con superfici in revéro creando un equilibrio tra rigore e leggerezza. Con DanteNegro invece è nata Relire, una libreria modulare che esplora la versatilità del materiale e la sua capacità di farsi struttura, non solo superficie. È un progetto che per me rappresenta molto bene lo spirito di rehub: ricerca, materia e forma che si fondono in qualcosa di essenziale ma potente. Oggi alcuni dei nostri prodotti sono già disponibili tramite il nostro sito ed e-commerce, ma il nostro obiettivo resta quello di far nascere nuovi progetti con i brand e i designer, spingendo ogni volta un po’ più in là i confini di ciò che il vetro può diventare.
In un mondo che parla tanto di sostenibilità, come si evita che questa parola diventi solo marketing?
È un tema centrale nella nostra comunicazione. La sostenibilità oggi è diventata quasi una moda: sembra che tutto sia improvvisamente sostenibile, e questo rischia di svuotare di senso una parola che invece dovrebbe rappresentare un impegno reale. È un meccanismo che finisce per danneggiare proprio chi lavora con serietà e coerenza. Noi cerchiamo di affrontarla in modo diverso: parlandone il meno possibile e dimostrandola il più possibile. Preferiamo raccontare i processi, i dati, le collaborazioni, i risultati misurabili, senza sovrastrutture, senza usare slogan. Anche perché il pubblico oggi è molto più consapevole: riconosce subito chi fa greenwashing e chi invece ci crede davvero. Alla fine, la trasparenza è la forma più onesta - e più credibile - di sostenibilità.

Courtesy of rehub
Come cambia la percezione del vetro quando diventa qualcosa di nuovo, più vicino alla pietra o al marmo?
È una bella domanda, perché in effetti chi si avvicina al nostro materiale lo fa sempre con curiosità. Tutti si aspettano di vedere o toccare qualcosa di “vetroso”, ma quando prendono in mano revéro restano spiazzati: ha un peso, una tattilità, un suono che non associ al vetro. E quando spieghiamo che è fatto al 100% con scarti di vetro, scatta sempre l’effetto wow. In un certo senso, revéro mette in discussione l’idea stessa di cosa il vetro “dovrebbe essere”. Mi piace dire che revéro è figlio del vetro, non il suo clone: ne eredita alcune caratteristiche - la purezza, la resistenza chimica - ma poi prende una sua strada. Ha una nuova identità, un aspetto materico e una solidità che lo avvicinano più alla pietra che alla trasparenza. È un materiale che porta dentro la memoria del vetro, ma la restituisce in una forma nuova.
Quali applicazioni o collaborazioni immaginate nei prossimi anni?
Siamo una startup, ma con una visione molto chiara: abbiamo sviluppato un processo che dà nuova vita a uno scarto che, fino a oggi, finiva in discarica. All’inizio ci siamo concentrati su piccole sperimentazioni, su oggetti di dimensioni contenute, ma con il tempo abbiamo iniziato a spingerci verso tecniche più efficienti, capaci di portarci su scale più ampie. Siamo partiti dal gioiello, poi dai piccoli oggetti per la casa, e oggi stiamo lavorando sempre di più su superfici e componenti destinati al design e all’architettura d’interni: piani per tavoli, pareti, rivestimenti. È una naturale evoluzione del materiale, che nasce artigianale, ma ha un potenziale industriale enorme. Stiamo lavorando per rendere il processo scalabile, senza perdere l’anima del progetto. È un percorso complesso, che richiede tempo, risorse e il partner giusto, ma è anche la parte più stimolante: vedere come una materia nata dagli scarti può diventare protagonista di nuovi spazi e nuovi linguaggi del design.

Courtesy of rehub
Cosa vi affascina ancora del vetro, dopo averne riscoperto i limiti e le possibilità?
Sono rimasto a Murano perché il vetro mi ha letteralmente folgorato. È un materiale antichissimo, quasi primordiale, che si lavora come fosse lava: vivo, imprevedibile, in continua trasformazione. È forse l’unico materiale che non puoi lavorare a casa: richiede strutture, strumenti, ma soprattutto conoscenza. È questo che lo rende affascinante - e, in un certo senso, anche umile. Dopo più di dieci anni continuo a imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Come tutti gli amori, anche questo è cambiato nel tempo: all’inizio ero attratto dalle forme, dai colori, dalla magia visiva. Oggi invece mi affascina la materia in sé - la sua composizione, la chimica, il modo in cui reagisce e si comporta. Studio formule, test, miscele, e ogni esperimento apre una piccola porta su un mondo ancora inesplorato. E non sono solo in questa passione: il team di rehub è fatto di persone giovani, curiose, che condividono la stessa attrazione per questa materia e per il suo potenziale ancora inespresso. Credo che sia proprio questa curiosità collettiva - più che la tecnologia o il design - a tenere vivo, ogni giorno, il nostro lavoro.
Il tema di Fuorisalone 2026 è “ESSERE PROGETTO”. Se pensate al vostro lavoro in questi termini, che significato ha per voi?
Per noi il processo è tutto. È la parte più viva e autentica del lavoro, quella in cui accadono le cose. Personalmente sono ossessionato dai processi, e non solo da quelli tecnici: anche dalle relazioni, dagli scambi, dagli errori che portano a nuove soluzioni: revéro stesso non è tanto un materiale quanto il risultato di un processo - un metodo che può generare una varietà infinita di forme e applicazioni. Quindi sì, in un certo senso “essere progetto” è esattamente quello che facciamo ogni giorno: abitare il processo, più che produrre un oggetto.

Courtesy of rehub
Rehub nasce dal desiderio di ripensare ciò che è già stato. In questo processo di “re-design”, quanto conta accettare l’errore e il fallimento come parte del percorso?
Sì, direi che senza errore rehub non esisterebbe. Lavorare con gli scarti significa convivere con l’imprevisto: ogni volta pensi di aver trovato la formula perfetta, e puntualmente succede qualcosa che ti smentisce. Ma è anche il bello del gioco: a volte una crepa, un difetto o un colore “sbagliato” diventano la cosa più interessante. In laboratorio abbiamo una regola semplice: vietato dire di no. Lo sbaglio - e anche il fallimento - sono ben accetti. Anzi, fanno parte del processo. Siamo una startup: il fallimento, in fondo, è forse l’unica cosa davvero certa… ma è anche il modo più onesto per imparare qualcosa di nuovo.
Tag: Design Vetro di Murano Sostenibilità Interviste Essere Progetto
© Fuorisalone.it — Riproduzione riservata. — Pubblicato il 04 novembre 2025



